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Bonito

(Articoli originali pubblicati su Ottopagine il 20 ed il 29 marzo 2009)

Sono arrivata a Bonito in una freddissima sera di febbraio. I lampioni al sodio del lungo Corso principale fino alla piazza restituiscono un alone surreale. Le strade sono vuote ed il basolato luccica per la pioggia caduta nel pomeriggio. Mentre guidavo fino a qui - ed il paesaggio cambiava dopo il Passo di Mirabella (un discrimine geografico e storico) - mi sembrava di tornare alle radici di una “contadinità” antica, fatta di grano e legno, come era (e per certi aspetti ancora è) dalle mie parti, molto più ad est di qui, dove l’odore del grano impregna anche le cose, oltre l’aria.

Nella piazza c’è il Castello aragonese. Di proprietà privata e per metà abitato. C’è anche una bruttissima insegna “americaneggiante” proprio al centro dell’area, con i cavi aerei dell’alimentazione elettrica a vista.

Mi chiedo se questo paese sia amato abbastanza per evitare questi errori “estetici”. Gironzolo con la mia Nikon per fare qualche foto, arrivando fino alla Cappella, illuminatissima, del famoso e venerato Zio Camuso, metà scheletro e metà mummia, che, pare, sia miracoloso.

C’è anche una altra mummia a Bonito, quella di San Crescenzo, un martire ragazzo di 12 anni il cui corpo (in parte ricostruito a cera) è conservato in una tomba d’oro molto manierata.

Dal Belvedere, poiché è buio, ritornano le luci delle strade e dei paesi verso sud ovest, una valle come una coltre di velluto scuro punteggiato.

Ripasso per la piazza e mi soffermo davanti alla Chiesa di Santa Maria Assunta, la Chiesa Madre, ricostruita dopo il sisma. Se non mi avessero raccontato che la facciata è stata ispirata dalle tende degli antichi ed erranti pastori ebrei della Bibbia, la mia imperdonabile ignoranza architettonica mi avrebbe consigliato di assegnare questo moderno progetto bianco ed asimmetrico allo stile pueblo (dominazione spagnola dalla California al Messico).

La ricostruzione attuale mi sembra disordinata e spesso anonima, oserei dire senza poesia, come d’altronde ho notato in tanti dei nostri paesi irpini. Non rievoca il ricordo del paese che fu. Scopro che il Piano regolatore del Comune è stato approvato solo nel 2004: purtroppo, molto spesso nei nostri Comuni ci sono ritardi nel dotarsi degli strumenti urbanistici necessari.

Passeggiando per le vie del paese, rifletto sul fatto che se la ricostruzione avesse riproposto, semplicemente rispettando, lo stile del vecchio paese, Bonito avrebbe avuto uno dei borghi più belli d’Irpinia.

“A Bonito è rimasta solo la storia”, mi dicono in gruppo le persone che incontro stasera.

La storia di Bonito, per altro, è molto antica e suggestiva, tutta incentrata attorno al culto di San Bonet (San Bonito, che si festeggia il 15 gennaio) un vescovo francese del settimo secolo. Ma ci sono passati i Goti, i Bizantini, i Longobardi, i Normanni e gli Angioini in una zona già nota ai Romani, ricca di reperti italo-greci, oggi scomparsi.

È stato un paese di grande tradizione artigianale: paese di falegnami e di calzolai.

Da qui partì il celeberrimo Salvatore Ferragamo, con la moglie, Donna Wanda Miletti, anche lei di Bonito, anche se tutti i media riportano “stilista fiorentino”: bisogna ripristinare la verità, cotanto personaggio è un vanto per la nostra terra. Di Ferragamo c’è molto anche nel curatissimo sito istituzionale del Comune (www.comunedibonito.it), pieno di belle foto e di servizi telematici. Sono elencate anche le feste del paese (ma senza le date, però!), tutte in occasione di ricorrenze religiose. Ho scovato pure la descrizione di alcuni piatti tipici bonitesi, molto caratteristici per davvero. Alcuni di questi, fatti con la farina gialla, oscillano tra la tradizione irpina e quella dauna. Un giorno scriverò di come e perché la pizza ‘ionna’ (o ‘onna’, cioè gialla) oscilli tra una ‘edizione’ dolce ed una salata (associata alla nostra ‘menesta’) nelle diverse zone della Campania.

I miei interlocutori di stasera sono per lo più ex emigranti, come Guido ed Angelo, gente schietta, lavoratrice, gente che ha imparato la pazienza nei lunghi anni nelle Americhe, in Australia o in Germania e Svizzera. Adesso si va ancora via, mi dicono, ma al nord d’Italia e, spesso, senza troppo fortuna.

Negli anni buoni (fino agli anni ’50, cioè), Bonito arrivava a 5000 abitanti. Ora ne conta all’anagrafe circa 2500. Aveva anche un eccellente complesso bandistico di ben 50 elementi: roba da Banda di Corpo. Il lavoro rendeva queste società attive, migliori, entusiaste: indicava un futuro ed un’etica. Ma ora?

C’è rassegnazione negli sguardi delle persone che mi raccontano delle loro vite trascorse altrove e dei loro disagi attuali, ma c’è anche il ricordo di una vita diversa da quella che si strappa ai giorni di adesso. Si è tornati a Bonito perché le radici sono forti, nonostante le difficoltà sociali in un sud che arranca, ma i nostri giovani?

La Bonito che verrà mi viene raccontata da David Ardito (un web designer). Bonito è decentrata rispetto alla direttrice est-ovest, mi spiega questo giovane assessore, quindi, il suo sviluppo deve gioco-forza passare per l’associazione con altri Comuni in più progetti: turismo, eno-gastronomia, cultura.

La sinergia intercomunale viene premiata dalle politiche di finanziamento nazionali e regionali, ecco perché Bonito ha in Comune con Mirabella un PIP di 300 mila metri quadri, completamente finanziato con quattordici milioni di euro ed in fase di ultimazione. Già sono numerose le richieste di lotti.

David mi parla di quello che Bonito non è e non ha, ma ha anche tante idee su ciò che si potrebbe fare. Da due anni c’è anche la linea ADSL, dopo tanto combattere (e poi si parla di digital divide nei paesi del Terzo Mondo!). Solo da poco c’è un ATM Bancomat, ma non c’è ancora uno sportello bancario né un Postamat.

Come Assessore alla Politiche Sociali, Giovanili, Cultura e Sport tiene tantissimo al Forum dei Giovani – che , tra l’altro, è ben organizzato: ha promosso un gemellaggio in Francia (con un paesino della Loira) ed organizza con regolarità corsi e seminari. Mi racconta che il Comune ha un hot-spot nelle adiacenze del Municipio, che giovani ed anziani sono stati coinvolti in corsi di informatica, che sono stati organizzati corsi di recitazione, che Bonito ha due squadre di calcio molto combattive.

Con il recupero del settecentesco complesso Conventuale Francescano (già finanziato) si pensa di creare un polo museale del design della moda (tutto incentrato sul marchio Ferragamo) da collegare alle visite al Parco Archeologico di Mirabella Eclano, come pure è possibile sfruttare la posizione di Bonito ricadente nella zona DOCG dell’Aglianico (con Taurasi e le offerte già presenti, in primis il resort dell’Azienda Mastroberardino) e nell’area DOP dell’Olio di Oliva (Colline dell’Ufita).

Insomma, tanta tradizione e cultura da far confluire in un turismo integrato.

David non è ansioso, ma nutre serene e concrete aspettative sul futuro del territorio. La cura ed il recupero della tradizione sono un ottimo progetto di marketing territoriale per uno sviluppo possibile, in una terra (la nostra Irpinia) in cui troppe politiche industriali pretenziose hanno fallito creando disperazione e nuove povertà.

Il paese non è solo un luogo fisico, ma anche un complesso di sensazioni ed emozioni che le persone portano con sé, come inscritte nel DNA mitocondriale, quello più resistente, quello che identifica le nostre genìe più antiche. Come è successo al professore Salvatore La Vecchia. Il suo nome viene subito fuori nei discorsi, perché questo illustre ed attivo bonitese è autore di tre opere teatrali in dialetto (La Potea, La Chiazza, La Masseria), le quali vengono rappresentate durante le feste. La Vecchia, però, vive ed insegna in provincia di Sondrio, in Val Chiavenna. Un altro emigrante, insomma. Ha scritto di storia e di linguistica, ma l’opera cui voglio accennare è, invece, un preciso dizionario di bonitese, il Bonidizio, di cui La Vecchia è autore. Me lo ha portato qui Massimo, giovane innamorato del suo paese. Lo sfoglio rapita: è una miniera di tante piccole perle etimologiche e di tante parole dialettali molto familiari. Si distingue come bonitese per via delle inflessioni fonetiche che assumono gli idiomi locali, meno sordi nella pronuncia delle consonanti (con più ‘b’, ‘d’ e ‘gh’ che non ‘p’, ‘t’ e ‘k’, come insegnano le leggi sulla rotazione fonetica del Grimm), rispetto alle zone più vicine ad Avellino. “Anga”, ad esempio, è un sostantivo femminile che significa ‘ramo’ (n’anga de cerase, per esempio) e viene dal greco ‘ankòn’, ovverosia gomito. Oppure, “mbrosceneià”, sempre dal greco ‘proskyneo’, ovvero prostrarsi. I lessemi elencati in questo dizionario, però, nell’uso e nel significato, sono comuni alle parlate di tutta la Valle del Medio Calore.

C’è tanta storia, tanta cultura e tanta strada nelle parole descritte in questo dizionario: c’è paradossalmente tanta vita. Torno a casa che è ancora più buio, più freddo e più piovoso, in questo inverno che pare non finire mai. Ma mi hanno regalato il Bonidizio e sono contentissima.

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Tag(s) : #reportage in Irpinia, #Bonito
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