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I piedi della felicità

Non è una fissa, la mia, tuttavia il binomio social-felicità è sempre più coeso.
Anche d’estate. O forse soprattutto d’estate. Benvenuti ad un’altra puntata di "Hashtag Felicità" edizione 2014.
Nei miei cinque-giorni-cinque di vento al mare, metà dei bagnanti rovinava le vertebre cervicali china sugli smartphone, l’altra metà era alle prese con i selfie. C’era un tipo che tentava di farsene uno tenendosi in equilibrio sul windsurf. Le mamme più accorte, tenevano il loro smartphone in una di quelle sacchette sigillate anti-sabbia, anti-acqua, anti-sbrodolamento-di-gelato. Un i-coso è così imprescindibile (‘na parola che riempie la bocca: im-pre-scin-di-bi-le, specie se la pronunciamo con due ‘bbì’) che una recente sentenza statunitense (sempre loro) ha determinato che ormai uno smartphone (stanno facendo capolino i phablet) è un’estensione del corpo e non può essere sequestrato: è come se si limitasse la libertà e le capacità di un individuo.

Insomma, quello che passa attraverso un i-coso è parte di noi. Ne siamo talmente dipendenti che è ovvio che ci s’incacchia assai quando si scopre che i cervelloni di fèisbuk riescono a manipolarci e ci scrivono sopra pure un saggio di tipo accademico. Non era meglio che facevano i loro esperimenti e se li tenevano per loro, come fanno tutti gli altri? E invece no: quelli, sboroni, lo raccontano al mondo intero per far vedere quanto so’ masti e tutti si ribellano per la fregatura. Si sono incacchiati pure i militari USA che attraverso gli umori dei social controlla(va)no la temperatura sociale mondiale e magari sarebbero pure riusciti a convincere i capoccioni di Menlo Park a manipolare qualcosa alla bisogna.

I social sono diventati il contatto confortante di cui noi umani siamo sempre affamati e che spesso non riusciamo a soddisfare fisicamente (un abbraccio, la vicinanza, una rete di amici con cui bere una birra).

È per necessità di un ‘conforto da contatto’ (secondo Harry Harlow, psicologo, è un bisogno fondamentale) che continuiamo a rimanere attaccati ai social – e per estensione ai nostri i-cosi – come per avere una confortante ed indispensabile coperta di Linus. Ci rimaniamo male – qualcuno anche malissimo – se veniamo a scoprire di essere stati scancellati (unfriended, si dice con termine tecnico appropriato). Io stessa – per questo motivo — non cancello mai nessuno e cerco di farmene una ragione se scopro di non essere più nella lista di qualcuno.

Ma ci rimango male. Perché la prendo come una sorta di offesa personale: cosa ci sarebbe in me che non va, tanto da essere scancellata da qualcuno?

Capisco benissimo che per quanto edulcorata (anzi proprio per questo), la nostra immagine su fèisbuk può irritare. Irrita quando ci descriviamo a modino per costruire una migliore immagine di noi stessi (soprattutto per noi stessi. Vedete per favorequesto video: è fantastico); quando mandiamo afrore di narcisismo; quando cerchiamo attenzione; quando descriviamo i nostri privilegi per innescare invidia; quando descriviamo la nostra solitudine; quando ci vantiamo; quando facciamo i misteriosi (molti giornalisti scrivono cose criptiche sulle bacheche, per darsi un tono eleusino!); quando la bacheca diventa un ‘caro diario’ delle giornate, ora per ora; quando sveliamo inaspettatamente cose troppo private o intime; quando annoiamo con ovvietà; quando annunciamo di aver trovato la Verità.

Fateci caso mentre leggete gli aggiornamenti dei vostri amici. C’è qualcosa che avete letto che vi ha fatto rabbuiare? Qualcosa che inspiegabilmente vi spinge ad alzarvi per guardare fuori della finestra? O mangiare un dolcetto, desiderare un altro caffè?

Insomma, nonostante l’ottimismo e la felicità che i nostri amici esprimono sui social, ci sentiamo inquieti. In una parola: infelici. Succede che inconsapevolmente la nostra psiche attiva confronti ed immancabilmente risultiamo perdenti. Ma non pensate minimamente che lo siate davvero: semplicemente tutti noi ci dipingiamo meglio (spesso anche molto meglio) di quello che siamo e a confrontarci con tutti gli altri che apportano le stese migliorie alle descrizioni di se stessi ci viene il dubbio che gli altri siano davvero migliori.

Manuel Castells ha detto: “Le reti sociali trasformano gli esseri umani in audience, vendendo l’immagine della vita che viviamo.” (da “Comunicazione e potere”, pag 558)

Noi rimaniamo a guardare d’estate l’ennesima replica di “Nuovo Cinema Paradiso”, mentre chiunque altro si fotografa i piedi nelle havajanas (come nella foto di copertina). Tutti si promuovono e chi legge di queste auto-promozioni soffre, vorrebbe stare lì, dove sta l’amico/l’amica. Su di una terrazza a prendere un aperitivo, o pieds-dans-l’eau a Motia, o a guardare i soffitti dell’ex cattedrale di Istanbul, o i mosaici di Monreale; magari sublimarsi in una granita di mandorle a Taormina, immergersi nella baia di Selinunte; respirare storia su di un battello danubiano a Budapest; guardare Vienna dalla storica ruota del Prater prima di fiondarsi all’Hotel Sacher per impastarsi la bocca di torta, o svuotare la mente in una cala alle Baleari. Insomma, cose così. Questa storia dell’invidia (e quindi dell’infelicità) indotta è risaputa, ancor prima della manipolazione di massa di Facebook venuta fuori come notizia all’inizio di questa estate. Davvero nulla di nuovo.

Dipingerci belli è attività naturale: tutti amiamo piacere, perché così ci costruiamo un capitale reputazionale, fatto di cose (nel caso di specie, fotografate e postate) che abbiamo visitato/letto/sperimentato/ascoltato/gustato, sublimandole e magnificandole nei post. Manuel Castells (sì ancora lui. Mi sono sorbita due kili di saggio e mo’ vi tormento) ha detto – parafrasando Andy Wahrol – che ognuno oggigiorno pretende i suoi 15 megabytes di fama.

Non solo, ma stiamo anche a contare quanti ‘likes’ raccogliamo, come fossero punti per l’Autostima dell’Anno. Sì, spesso ci casco anch’io. Invece di contare i contatti unici all’articolo, m’incaglio nel numero di ‘likes’ e /o di condivisioni di un articolo. Spesso c’è un abisso tra le due cifre. Ma alla fine – come giornalista — è meglio essere letti che acchiappare qualche ‘likes’ di più, se pigiare ‘like’ può significare, oltre a ‘mi piace/è divertente/è bello, anche:

  • mi fa ridere;
  • voglio fare sesso con te;
  • sono d’accordo;
  • sei simpatico/a;
  • ho fiducia in te (se hai già tanti ‘likes’ vuol dire che non faccio male a dartelo anche io);
  • ti penso;
  • sei un coglione (che sarebbe un ‘like’ di tipo ironico, ovvero la variante di “mi hai insultato così bene che comunque mi è piaciuto”;
  • non ti sono ostile (ci piazzo un ‘like’ perché sto per commentarti una cosa ambigua e un ‘like’ mi fa da salvacondotto);
  • mi dispiace ti sia successo;
  • pensami (una specie di ‘poke’ meno antipatico di un ‘poke’);
  • ti abbraccio;
  • ci metto un ‘like’ così non ti devo rispondere;
  • ci capiamo;
  • facciamo pace;
  • ti controllo. (Questo elenco rielaborato è tratto da un simpatico articolo di Manuel Peruzzo su Linkiesta del 20/3/2014)

La gente conta i ‘likes’ e gonfia il petto. Un post in bacheca con pochi likes è la condanna di uno sfigato, nell’accezione digitale. E nessuno vuole essere uno sfigato. Nessuno vuole diventare infelice. Neanche sul web. Anzi, soprattutto sul web.

Allora, che si fa? Molti cancellano i post snobbati. Molti altri, potano le amicizie, fanno pulizia (c’è un giorno di novembre dedicato all’operazione di ‘pruning’), a cominciare dai vecchi compagni di scuola, che forse ricordano loro le aspettative deluse di successo e felicità. (Chi pota spesso dovrebbe però utilizzare anche l’app “Cloak”, però. Si tratta di un geo-localizzatore che ci avverte se nelle vicinanze c’è gente a noi antipatica, sì da evitarla. Non si sa mai l’abbiano presa a male per la scancellazione.)
Molti, infine, si cancellano proprio dai social. Magari lo annunciano urbi et orbi con frasi altisonanti o criptiche. Qualcuno racconta di essere costretto a farlo per salvare una relazione, altri non reggono all’orda di trollate e flaming scatenate per qualche post o commento azzardato e poco ponderato. Molti la buttano sul filosofico-elitaristico, ma noi, che invece siamo sgamati, abbiamo capito che è l’ennesima mistificazione da social.

Amici miei, non c’è bisogno di cancellarsi da nulla. E nella prossima puntata continuerò a spiegarvi il perché. Cià.

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Tag(s) : #felicità, #social network
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