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Una parola da bandire

Il «Time Magazine» ha chiesto ai suoi lettori di votare per la cancellazione di alcune parole abusate o male utilizzate.

Tra queste parole (ma anche frasi e acronimi) c’è anche il termine ’femminista’.

Il fatto che sia tra le parole da potersi/doversi ’bannare’ nel prossimo anno di comunicazioni, mediali o non mediali, è un segnale pericoloso.

Secondo l’autrice dell’articolo, Katy Steinmetz, la parola è abusata (nel senso che ricorre spesso) da quando alcune celebrità ed alcuni politici statunitensi si sono sentiti in dovere di etichettarsi in qualche modo.

Sull’argomento, e ben prima della provocazione di Steinmetz, ho dedicato all’argomento molti editoriali (qui come su altre testate nazionali) anche riferendomi alla questione del valore della parola.

Secondo il «Time», questo termine è abusato, anche in un’accezione politically correct, laddove è diventato di moda distinguersi, sia per essere femministe/i che il non esserlo. E ciò specialmente tra personaggi dello spettacolo, tra cui Beyoncè e Taylor Swift negli USA.

Il problema deriva tutto dall’accezione storica di ’femminismo’, che ricorda più le battaglie (talvolta aspre) dei decenni passati che il corpus di diritti, tra cui molti non ancora conquistati, tipo: paghe uguali, tempi famigliari, diritti di scelta, sicurezza personale, opportunità di carriera e accesso nel mondo del lavoro.

L’abuso dei media della parola femminista ha innescato una reazione che conduce i più a discostarsene. Espressioni come "non sono contro il femminismo, ma...", ovvero "non ho nulla contro le femministe, tuttavia …" sono il prodotto di un certo giornalismo che la testata «Salon.com» definì (esattamente un anno fa) ’pigro’, nel senso di non voler assegnare alla parola incriminata i giusti confini e significati, così come si sono modificati dall’epoca della combustione dei reggiseni in piazza ad oggi, epoca di tacchi a spillo e acido corrosivo sui volti femminili.

Il grandguignolesco virtuale adottato dai media — e lamentato su «Salon.com» — striscia con fare accattivante e subdolo utilizzando tecniche retoriche finanche contro la First Lady Michelle Obama. Da un lato definendo il suo potenziale femminista da titolata alla Ivy League sprecato appresso alle problematiche alimentari dell’infanzia, mentre dall’altro si esaltano le sue scelte stilistiche, la sua attività giardiniera, ovvero si biasimano le sue incursioni nella politica nazionale. Insomma, non va bene niente.

Un po’ diversa è la situazione in Italia, anche se pure da noi definirsi femministe è questione delicata.

Come negli USA, anche da noi la parola ’femminista’ viene per lo più utilizzata per indicare una parte estrema e rigida della società, piuttosto che un movimento, storico o attuale che sia. Femminista, insomma, ha una brutta nomea. Tuttavia, la condizione femminile italiana non è migliore, tantomeno uguale a quella di quasi tutti gli altri Paesi definiti occidentali.

In una lettera pubblicata su «L’Espresso» della settimana scorsa, una demoralizzata lettrice dichiara di non gradire "neanche un po’ il messaggio che viene mandato alle donne italiane attraverso la scelta di queste giovani deputate e ministre". Continua criticando la svolta nei criteri di scelta dal berlusconismo al renzismo: ora occorrono doti di telegenia, di deferenza disciplinata al premier e di decoratività quasi fiabesca. Conclude così: "Berlusconi ha umiliato le donne italiane in ogni modo possibile, ma mai in una forma così subdola o con risultati pratici così disastrosi: persino la Carfagna dimostrava più pensiero critico della Picerno."

Accidempolina! Direbbe Ned Flanders dei Simpson. Addirittura rimpiangere Carfagna?

Se vogliamo considerare la questione da un punto di vista telegenico, nonostante i trascorsi artistici, una cosa mi sembra certa: da Onorevole della Repubblica Maria Rosaria Carfagna non bamboleggiava, anzi aveva un cipiglio sorprendente in ogni occasione. Non si può dire altrettanto degli esponenti femminili dell’attuale compagine Governativa, il cui piacionismo diventa funzionale unicamente all’occhio maschile. Tuttavia, non posso farne loro una colpa, se la cultura dei tempi ha insegnato loro ad essere così. Come Jessica Rabbit veniva disegnata bomba sexy, così la cultura di un trentennio ha modellato principesse ignave. Non oche, per carità, ma sicuramente imbambolate, spesso nell’adorazione di Matte Orenzi, così com’è nella pronuncia della sua supporter governativa più in vista. Non lo fanno apposta, anche perché sono prive della consapevolezza che era delle loro colleghe berlusconiane, ovverosia sono davvero convinte di stare lì perché sono competenti. Sono la migliore espressione collettiva di quella che fu definita "la sindrome Alba Parietti", ovverosia non saper fare nulla, tuttavia saperlo fare molto bene.

Non che la legnosità e la segalignità di personaggi come Emma Bonino o Livia Turco siano (o siano state) inarrivabili garanzie di serietà e competenza, tuttavia la loro immagine non indulgeva a considerazioni di donna-madre, accudente, fedele e devota, la cui deferenza spesso compensa curriculum debolucci. Il problema è la perpetuazione di tali immagini attraverso ruoli istituzionali le cui funzioni risultano alterate dalle loro personalità bamboleggianti, appunto.

Fintanto che esisteranno versioni edulcoratissime di genere propagandate subdolamente attraverso suoli e funzioni istituzionali, la parola femminista deve vivere.

Tag(s) : #discriminazioni di genere, #politica, #femminismo
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