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Sorrisi turchi

In Turchia Recep Tayyip Erdogan ha ri-vinto le elezioni. Dicono che la vittoria sia dovuta allo sviluppo economico che la Turchia sta vivendo da un decennio in qua. Non so se sia una causazione post hoc ergo propter hoc, ovvero una pura casualità che però sia stata artatamente collegata alla premiership di un altrimenti rigido conservatore. Giusto prima delle elezioni, il vicepremier Bülent Arinç – tra l’altro portavoce del Governo turco – se ne uscì con questa perla: “Le donne non dovrebbero ridere in pubblico: è immorale.”
Fantastico.
Finisce che uno pensa che il suo Capo, Erdogan, le elezioni le abbia vinte anche per queste idee e che se Erdogan è di nuovo il capo del Paese siano legittime anche le belinate conservatrici. La Turchia vorrebbe entrare nella UE. Just sayin’.
Al di là della retorica classica sul sorriso delle donne — che fa bene al cuore, che illumina il giorno, che rasserena gli orizzonti, che affascina (prendete la Monnalisa leonardesca) — anche i più retrivi anti-femministi saranno d’accordo con me che è una vera idiozia, l’affermazione di ‘sto Arinç.
È successo che in men che non si dica, le donne turche abbiano organizzato un’allegra rivolta. Utilizzando Twitter con hashtag appositi, hanno inondato la rete di selfie con sorriso. Il web è una mano santa per le donne e per il femminismo. Uno studio del “Barnard Center for Research on Women” ha confermato la validità della veicolazione di tematiche femministe sul web, dove le donne sono massicciamente presenti come fruitrici e produttrici di contenuti (prosumer). "Il femminismo on line è l’innovazione più efficace nel movimento degli ultimi cinquanta anni" è la sintesi della ricerca. Il mezzo – democratico, gratuito, invasivo, accessibile – aiuta la diffusione e la condivisione di tematiche e situazioni come la vicenda turca, sollevando reazioni mondiali. tuttavia il fatto di invadere la scena mondiale smitizzando la proposta o-scema di non far sorridere in pubblico le donne non giova mica alle relazioni internazionali di un Paese che vuole continuare il suo sviluppo economico, guardando ad ovest.
Questa rivolta del sorriso sul web è la miglior risposta al movimento #womenagainstfeminism, di cui mi sono occupata qualche articolo fa.
Pur considerando tutte le circostanze (anche psico-antopo-etno-demo-sociologiche) che la gallery dei selfie testimonia, rimango fermissima dell’idea che – brutto o cattivo che sia – il femminismo sia necessario, senza se e senza ma.
A dicembre del 2013, a circa due anni dall’avvio, il progetto “Everyday sexism” di Laura Bates (attivista, blogger — giornalista per «The Guardian», «The Indipendent» e l’«HuffPo») aveva raccolto più di cinquantamila esempi di sessismo quotidiano, quello di cui non ci accorgiamo più, quello che passa inosservato, perché ci soffermiamo a considerare solo i momenti più tragici: stupri, sfregi, femminicidi in ogni parte del mondo. Pochi giorni fa, l’iniziativa di Laura Bates ha raggiunto il numero di sessantamila segnalazioni di sessismo quotidiano. Cos’è il sessismo quotidiano? Presto detto. È quella quotidianità di atteggiamenti per la quale – per esempio, anche nel mio luogo di lavoro – i dirigenti (anche donne) utilizzano il titolo accademico nei confronti di funzionari maschi laureati, ma solo il nome di battesimo (raramente preceduto da un ‘Signora’) se i funzionari sono donne, per quanto laureate. L’esempio riportato è uno dei più banali e comuni. Qualcuno lo riterrà anche innocuo, ma vi posso garantire che è la base per la proliferazione del sessismo, e, nel contempo, anche la sua conseguenza. Se cercate altri casi li trovate qui. Nel 2012 aveva suscitato scalpore il corto-documentario di Sofie Peeters, girato nelle vie di Brussels, raccogliendo le battutacce che gli uomini rivolgono alle donne per strada. Se ne interessò anche il «Time» nell’aprile scorso. Il magazine statunitense sintetizzò il contenuto così: “Gli inappropriati commenti sessisti pronunciati in pubblico hanno la conseguenza di rendere le donne vittime.” Infatti, non si è vittime solo in caso di violenze efferate e plateali. Giusto per dirlo alle molte donne di #womenagainstfeminism che si sono dichiarate non-vittime.
Proseguendo il viaggio per le strade italiane, vi chiedo se avete mai visto la pubblicità di cui a questo link.

Si tratta della campagna nazionale di “Punto su di te” . Come potete vedere dalle gallery, la provocazione ha istigato parecchi maleducati (va’, diciamo così), i quali – ovviamente l’anonimato agevola – hanno deturpato i manifesti con frasi che appartengono alla casistica del sessismo quotidiano. Moltissimi sono gli uomini che mentre parlano con le donne hanno tutt’altri commenti e giudizi, più simili alle idiozie scarabocchiate sui manifesti che non consoni a gente civile in un Paese (sedicente) civile .
Ma fosse solo per le scritte e per i commenti, aperti o sottaciuti. Il sessismo è anche quando l’ISTAT ci certifica che una donna su due non arriva a mille euro di pensione, laddove i loro coetanei uomini prendono di più. E pensare che le donne – anche quelle casalinghe – lavorano come matte tutta la vita, arrivando a totalizzare attività che valgono settemila euro al mese, secondo lo studio condotto dal sito economico statunitense salary.com.
Ma il problema dell’estate, amici miei, non è Erdogan, non sono i mille euro di pensione, non è neanche il mancato salario, bensì “le maniglie dell’amore a farfalla”, quelle di tipo femminile. Già, una vera tragedia. Se non ve ne siete accorti, anche questo è sessismo. Perché non parlare delle maniglie ad armadio degli uomini? Eh, perché no?

Tag(s) : #discriminazioni di genere, #Turchia, #pubblicità, #punto su di te
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