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Farsi api

(Nella foto, i cecatielli ai broccoli, baccalà e peperoni cruschi della mia grande ed appassionata amica Franca De Filippis del Ristorante La Pergola in Gesualdo.)

Ci vorrebbero delle ‘api furibonde’ (bellissima immagine della poetessa Alda Merlini, che oggi prendo in prestito) per risistemare un po’ il nostro meridione. Magari il paragone è azzardato, ma ho scelto le api perché sabato sera a Vallesaccarda ho ascoltato persone che provano a fare qualcosa per cambiare il senso allo spegnimento di un’intera area geografica, proprio come instancabili api. Ho ascoltato storie ed esperienze che restituiscono un po’ di ottimismo. Ma non basta, ovviamente. Ecco perché ci vorrebbe la furia, le api furibonde: fare con rabbia, con più determinazione. Tuttavia, anche con più fatica. Ma le api, l’ho già detto, sono instancabili.

Nelle abbondanti due ore del workshop dal titolo “Vallesaccarda eco-gastronomica” – giunta alla sua terza edizione e senza finanziamenti! – ho potuto scrivere ben sette facciate di appunti, tanta la quantità e la qualità degli interventi. Si capisce che dietro l’evento c’è stata un paziente opera di selezione delle competenze e dei contenuti da portare all’evidenza, grazie a Sonia Cerullo, Gerardo Cipriano e Giuseppe Luongo. Tutte api, ve lo garantisco.

Per capire cosa ha da offrire un territorio, ci è venuta in soccorso la storia dei luoghi, raccontata da Vittorio Pagliarulo. I secoli, le dominazioni, l’orografia e le reti viarie hanno preservato la Baronia nella sua etnografia, comprese le tradizioni gastronomiche.

Suraya Abboud Coaik è uruguagia di origine libanese, vive studia antropologia del cibo e lavora a Madrid. D’estate fa la chef su di una barca in giro per il Mediterraneo. Ama le diversità gastronomiche basate su storia e tradizione, esporta un concetto di gastronomia sostenibile basato sull’allineamento informativo e competenziale sull’alimentazione: genitori, figli, insegnanti, medici, produttori, rivenditori – tra gli altri -- devono conoscere i cibi per imparare a vivere meglio mangiando meglio. È qui perché la Baronia ha tutte le caratteristiche di originalità, qualità e conservazione di tradizioni e proverà a parlare di noi altrove. Perché il trucco per il successo è solo uno: comunicare, condividere, aprirsi al mondo.

Già, ma come si fa a promuovere un territorio per altro così ricco, come ci ha raccontato Salvatore Salvatore? Giada Mainolfi, con dati e ricerche, ci ha rivelato che l’Irpinia è totalmente sconosciuta al mercato internazionale. Soprattutto ai mercati più appetibili, gli ex BRIC (ora diventati vere e proprie potenze) e ai promettenti CIVET, acronimo di Colombia, Indonesia, VietNam, Turchia. Tantissimi, in questi Paesi, non sanno addirittura posizionare geograficamente l’Italia, figurarsi l’Irpinia e poi la Baronia. Il brutto è che neanche in Italia si sa bene dove si collochi la nostra provincia e l’aspetto più atroce è che neanche noi Irpini conosciamo la nostra terra, non sapendo neanche quali siano i Comuni che raccoglie. Nonostante tutta questa ignoranza, l’Irpinia esporta bene, meglio della media nazionale, perché i prodotti sono di alta qualità. I due terzi dell’export riguardano l’agro-alimentare e – mannaggia! – le eccellenze vinicole arrancano. Perché? Perché non sappiamo comunicare, vendere, aprirci ai mercati meno ‘classici’, fissati come siamo con gli States. L’humus migliore per una rinascita è quello delle PMI, ma esse sono spesso ottuse, pavide, chiuse all’innovazione. Neanche il Sistema Paese ci aiuta: in tre o quattro edizioni o ri-edizioni del portale istituzionale nazionale per diffondere l’immagine dell’Italia all’estero, sono stati buttati milioni e milioni di euro, senza qualità, senza risultati. Neanche sulla pagina Facebook dell’Italia va meglio. Nazioni come il Perù hanno molti più ‘amici’, per altro anche più convinti. È una vera e propria desolazione. È talmente furibonda Giada che racconta come l’eredità gastronomica italiana sia sempre più sfruttata all’estero, malgrado noi e nonostante lo stato degradato del nostro Paese. La nostra immagine turistica all’estero è ancora quella di cibi ottimi e giovialità. Sarà banale ma è il nostro tesoro. Ci vogliono tutti Tonys-and-mandolinos? Bene, cosa importa se il nostro marchio naturale sembra ingenuo: funziona, però. PizzaHut e Starbucks radunano fortune sfruttando due nostre tradizioni.

Siamo fatti male, abbiamo rinunciato a capire. Salvatore Salvatore ci ha raccontato di quando un distributore italo-newyorkese decise di importare olio da Carife (terra di olio sopraffino, solo che lo sanno in pochissimi). Venne in Irpinia per contattare i produttori. Uno di questi gli offrì dell’olio in una bottiglietta di succo di frutta, inqualificabile. L’altro non approntò la fornitura pattuita con l’importatore, perché non lo aveva preso sul serio. Ecco, questi siamo noi: pigri, spesso ignoranti, vittimisti. Tra l’altro, neanche le amministrazioni locali e non aiutano. Su otto sindaci invitati, ce ne erano solo due in platea, e questo è già un brutto sintomo di campanilistica miopia.

A sentire Stefano Consiglio, però, non bisogna deprimere i potenziali imprenditori e occorrerebbe diffondere ottimismo. C’è tanto da offrire tra Storia, esperienze ed emozioni legate al territorio e ai suoi prodotti, bisogna solo abituarsi a fare insieme. Una parola! Alberto Corbino ci ha allertato sul fatto che il 18% del territorio agricolo campano è contaminato dall’interramento dei rifiuti: la porzione più ricca e fertile della nostra regione è persa per sempre, ma rischiamo di perdere complessivamente come intera regione se non ribaltiamo il luogo comune e dimostriamo (innanzitutto con una comunicazione efficace, continua, non a spot ed improvvisata) che la Campania è “bella, buona e brava” (progetto Campania in 3B). Si possono certificare le zone agricole – come già in altre parti d’Italia, dove si sanno semplicemente vendere meglio – o puntare al turismo senza sprechi, o ancora stimolare un’agricoltura supportata dagli stessi consumatori. In un’enclave turistica vincente, Sorrento, i grandi alberghi offrono l’emmenthal come formaggio e non i molto più qualificati prodotti dell’entroterra. Perché? Perché non siamo una forza, non siamo uniti: non siamo nessuno e non facciamo proprio nulla per cambiare. Per Corbino, la Baronia potrebbe essere la migliore occasione per definire un territorio ‘responsabile’, perché ha tutte le caratteristiche. Ma perché non si parte? Cosa manca?

Non siamo un’arnia di api furibonde contro il Sistema Paese che ci ha tagliato totalmente fuori. A cominciare dal piano ferroviario. Meno male che in Irpinia abbiamo almeno l’autostrada e qualche statale post-sisma: saremmo diventati una morta gora in mancanza. Quanto ad autostrade telematiche stiamo messi maluccio, anche sotto l’aspetto dell’utilizzo della tecnologia per promuoverci. Un’impresa che ce l’ha fatta attraverso i nuovi media è Terratosta. Un marchio ‘rastrello’, come ci ha raccontato Gianluca Di Vito, architetto pentito ed ora soddisfatto e sorridente ambasciatore del Made in Irpinia, attraverso questo sito di e-commerce (da un’idea della moglie, una tosta), che distribuisce soprattutto alle zone della nostra regione più colpite dal fenomeno dei cibi contaminati dagli interramenti di rifiuti pericolosi. L’impresa si sta ingrandendo, grazie soprattutto al passaparola. Il brand Terratosta è comunicativamente vincente, perché il nome implica semplicità-ostinazione-tradizioni, concetti chiave, giusti per poter arginare l’idiozia di una pubblicità come quella che negli scorsi giorni ha diffuso il Consorzio Casalasco, produttore del Pomi’ (è stato un marchio Parmalat, tempi addietro). Per neutralizzare e ribaltare le propagande ‘contro’ non basta la vibrante indignazione: si deve spostare il livello dell’informazione fornendo dati e fatti che dimostrino come la Campania non è tutta avvelenata e illustrando i prodotti e la loro filiera, rendendoli accessibili alla vendita senza troppi mediatori.

Silvia Barbone vive e lavora a Bruxelles occupandosi di turismo sostenibile. Secondo Silvia, il peccato originale dei progetti sul turismo in Campania (numerosi e quasi tutti inefficaci) è che sono stati sfere avulse dal sostrato territoriale: non hanno creato indotto, educazione alla cooperazione e soprattutto dialogo e compartecipazione tra pubblico e privato. Porta l’esempio di Pompei, uno dei più grandi attrattori mondiali, inserito in una conurbazione squallida e povera: non c’è nulla attorno agli scavi che attiri il turista e lo trattenga almeno per due giorni, tempo minimo per un risultato economico utile.

Ecco perché Parigi ha più turisti di Roma: Parigi è un gomitolo da srotolare. Roma è molto più ricca di monumenti e luoghi, ma sono come opere in un museo: un catalogo. Dov’è la narrazione? Dov’è l’offerta di emozioni che il turista del Terzo Millennio sta chiedendo al mondo? Proprio di narrazioni ed emozioni da offrire al turista, ad un nuovo tipo di turista che sta emergendo anche in Europa, parla Carola D’Agostino. L’Irpinia è terra di sagre, roba veloce e di massa, ma l’esperienza di Vallesaccarda con le sue tre edizioni sull’eco-gastronomia dimostra che si può andare oltre, ragionando sulle prospettive. Ovviamente, ci vuole conoscenza, esperienza, certificazione delle competenze. La Regione Campania ha certificato un centinaio di esperti che possiedono il know how per progettare di turismo nuovo, sapendo che l’Irpinia è il miglior luogo per offrire Storia, narrazioni, esperienze (produrre insieme il formaggio, raccogliere l’uva per il vino, per esempio. Personalmente, conosco gente di Avellino che è andata in Armenia per provare il brivido di mungere una pecora!), perché c’è ancora un Italian Way of Life che affascina. Tutto ciò rimane teoria se non arriva potente il messaggio a noi Irpini di amare la nostra terra, a cominciare dalla pulizia dei nostri marciapiedi, o la cura del nostro terrazzo. Ci sono turisti dal nord-europa che chiedono di camminare nei nostri borghi (perché non abbiamo neanche una bandiera arancione in Irpinia? Ma ne riparleremo ancora delle Bandiere Arancioni) ed emozionarsi entrando in una storia o nella nostra Storia, che parte dal Neolitico e potrebbe essere narrata anche attraverso le tradizioni gastronomiche.

Infatti, la seconda parte della serata si è svolta al Centro Sociale, dove è stata allestita una cena-spettacolo, durante la quale quattro chef della Baronia con i loro staff hanno preparato sul palco i piatti della Baronia tra tradizione ed innovazione, che circa centotrenta commensali hanno gustato. Trovate anche questi momenti nell’ampia photo-gallery a corredo.

Vallesaccarda è un’apina furibonda, il Sindaco, Franco Pagliarulo, ha il dono della delega sapiente ed il workshop, di cui ho cercato di fare una sintesi, ha raccontato di soluzioni, non ha distribuito laconicamente auspici.

Ah, se tutta l’Irpinia fosse un’arnia di api furibonde!

(Per i ruoli ed i titoli dei partecipanti al workshop ed alla cena-spettacolo, rimando al programma ufficiale, che trovate ancora qui: http://www.vallesaccardaecogastronomica.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1&Itemid=138&lang=it)

L'articolo originale è stato pubblicato su Orticalab, al link che trovate in fondo alle foto.

Alcune foto sono mie, altre sono state scattate da Annamaria Pagliarulo e Carlo Iandolo.
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Tag(s) : #eno-gastronomia, #Irpinia, #Vallesaccarda, #sviluppo economico
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