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Un case-study: il sindacato italiano

L’ho studiata all’Università, la Scienza delle Organizzazioni. Da un gran bel manuale, di quelli americani, me lo ricordo ancora, me lo ricordo molto bene: Scott, “Organizations. Rational, Natural and Open Systems” - Prentice Hall. Fu amore a prima vista. Era anche meglio dell’altro volume, sempre americano, molto pratico: Mintzberg, “Structure in Fives. Designing Effective Organizations”. Ho incominciato così ad appassionarmi all’analisi delle organizzazioni umane di ogni tipo: famiglie, condomini, classi scolastiche, luoghi di lavoro, partiti politici e sindacati. Anche dopo l’università ho continuato a studiare e ad aggiornarmi in materia. I libri sulla materia ormai occupano uno spazio significativo nella mia libreria (un ultimo consiglio, Czarniawska “Narrating the Organization. Dramas of Institutional Identity” – The Chicago University Press). Sono diventata una specie di esperta e sono andata per lungo tempo in giro per l’Italia ad insegnare come ‘riaggiustare’ le organizzazioni, o quanto meno come riconoscere le patologie organizzative. Un’organizzazione non ha un unico aspetto: può essere una macchina, ma anche un organismo, un sistema cognitivo, oppure culturale, ovvero politico; un’organizzazione può essere una trappola oppure uno stato in divenire o addirittura un sistema di potere. (Per una disamina dettagliata delle metafore dell’organizzazione, c’è il meraviglioso “Images of Organization”, di Gareth Morgan, edito da Sage, in California, e dove se non nella terra dell’avanguardia?) Questa pedante premessa introduce un argomento che da qualche giorno è di attualità: demolire l’organizzazione sindacale.

Come tutte le organizzazioni umane, anche il sindacato non è un’organizzazione perfetta, soprattutto quando – per statuto e per abitudine – rimane un’organizzazione rigida, non tanto strutturalmente, quanto cognitivamente. Tutto il sistema sindacale italiano si fonda su principi nobilissimi, storicamente validi e riconosciuti, (la CGIL è stata fondata prima del PCI), tanto che nella Costituzione italiana i partiti politici non vengono valorizzati (nelle camere esiste il sistema dei Gruppi) quanto lo sono i sindacati. Considerato il passato, non ci sono organizzazioni migliori dei sindacati. Ve lo garantisco, per un breve periodo di tempo delle mia vita, ne ho fatto parte e ho imparato tanto e ne sono ancora grata. Nonostante tutto, c’è stata più democrazia lì che nelle sezioni dei partiti. L’ultima prova del grande valore di un sindacato – ricordate? — fu il famoso 23 marzo del 2002: circa tre milioni di persone al Circo Massimo che veniva da piangere per la compattezza, inusitata per l’Italia, se non durante i Mondiali di calcio. Poi, la politica si accorse che lo scontro frontale non conveniva e che l’organizzazione capillare di un sindacato avrebbe avuto sempre la meglio contro le strutture evanescenti dei partiti, fatte più di caminetti che di sezioni, più di inciuci che di assemblee. Cominciò, dunque, l’erosione della credibilità di questa nobile organizzazione. Dopo il celeberrimo testo “La casta” di Rizzo e Stella, apparve un volume velenosissimo contro i sindacati, presi dal loro lato più debole, quello economico, del cosiddetto front-end: i servizi. Lo scrisse Stefano Livadiotti, giornalista de L’Espresso: “L’altra casta. Inchiesta sul sindacato”.

Che il sindacato non accusasse il colpo era impossibile, tuttavia non comprese la sfida, proseguendo monolitico lungo direttrici antiche, gloriose tuttavia anacronistiche in un gioco a somma zero, contro la politica ed ora anche contro l’opinione pubblica.

Fino ad ora, l’alto livello competenziale dei dirigenti – specialmente delle strutture di vertice nazionali e meno frequentemente regionali – ha impedito una debacle, ma l’erosione è inesorabilmente in atto. In ausilio dell’ultima ed unica istituzione-baluardo contro il più becero berlusconismo in campo economico ed occupazionale (che ancora perpetua i suoi danni), accorsero – dopo l’acme del 23 marzo — moltissimi studiosi, i quali si rivolsero direttamente alle strutture sindacali per segnalare i sintomi di un declino. Lo fece Gian Primo Cella, per esempio, discutendo sui ‘dilemmi organizzativi’ per il futuro del sindacato, avvertendo, neanche tanto velatamente, sui rischi in corso: funzionariato, verticismo esasperato, gerarchizzazione, distacco dalla base per autoreferenzialità interna, feudalesimi (“Il sindacato” – Laterza). Lo spiegò più scientificamente Mimmo Carrieri, nel suo “Sindacato il bilico. Ricette contro il declino”.

Nonostante studi e ricerche, avvertimenti, nonché massicce iniezioni di ‘forza-e-coraggio-semo-i-meji’ ai quadri nei territori (attraverso mastodontiche operazioni di formazione interna), il sindacato italiano sta per perdere la sfida dei tempi. Il sindacalismo confederale italiano non ha adottato il Sistema Gand (dal nome della cittadina belga che per prima adottò il sistema di sindacato di servizio, quello delle quote, attualmente in vigore solo nelle categorie degli edili), giustamente – anche perché si sarebbe sfracellato più rapidamente.

Tuttavia, non ha immaginato di cellularizzare le strutture, sul modello francese, forse meno potenti dal punto di vista politico nazionale, ma più incisive sul territorio. Per quanto interlocutore politico potente, il sindacato avrebbe dovuto annusare il cambio del vento: sempre estate non è.

Poiché in questi giorni gli attacchi al sindacato si susseguono, si registra una ressa di critici e di detrattori. Oddio, l’invettiva “È tutta colpa dei sindacati!” non è nuova e di sicuro non è neanche veritiera, nella misura in cui – come anticipato in premessa – i sindacati sono organizzazioni umane, fatte da uomini portatori di virtù, competenze ed entusiasmo, come pure da individui privi di queste qualità. Forse, però, in questa fase storica, in cui le risorse scemano per tutti, anche per il sindacato, c’è il sopravvento dell’istinto di conservazione, vizio di autoreferenzialità letale, per il sindacato-molosso come lo abbiamo conosciuto finora.

Altro difetto dell’organizzazione è la parità di facciata. È vero che i sindacati hanno per primi affrontato la questione delle quote di genere, tuttavia l’organizzazione è intrinsecamente ed inesorabilmente maschilista, come hanno scritto amareggiate Rita Biancheri in “Donne nel sindacato” e la famosa Adele Grisendi in “La famiglia rossa”, ormai introvabile.

Lentamente, l’istituzione sindacale verrà svuotata, attraverso una critica continua, oltre agli attacchi frontali, specialmente attraverso i media più popolari. Si procederà al silenziamento (anche nei talk show) delle voci sindacali (contro Brunetta, Epifani era sempre lanciatissimo a Ballarò) e la nuova opinione pubblica fatta di precari, disoccupati, nuovi poveri (i lavoratori sindacalizzati di un tempo ormai sono in pensione) si formerà sull’idea veicolata di un sindacato quale sovrastruttura idrovora e parassitaria.

Poi. Poi c’è che all’annuncio di tagliare l’IRPEF per i redditi più bassi, il sindacato abbia risposto con un mix tutt’altro che univoco: non lasciare i lavoratori indietro (Camusso), lo sciopero non serve (Bonanni), bisogna dare i soldi anche alle imprese (Angeletti).

L’ideale sarebbe che non si proclama nessuno sciopero perché ai lavoratori e alle pensioni minime verranno riconosciuti i maggiori sacrifici in termini di tasse, laddove le imprese (già destinatarie di una diminuzione seppur minima del cuneo fiscale) avranno più giovamento dalla ripresa interna dei consumi che dal ristoro fiscale. (Sulla dichiarazione di Squinzi secondo il quale è meglio avere più posti di lavoro che un lieve adeguamento inflazionistico vorrei dedicare un articolo a parte. Dico solo che una manciata di posti di lavoro con paghe da fame e sfruttamento non è dignità. Ma ne riparleremo.)

Non c’è bisogno di digrignare i denti contro Renzi (non ho cambiato idea contro #comefossantani), anche perché non se ne acquista in immagine e benevolenza da parte dell’opinione pubblica, delle persone, cioè, che dovrebbero partecipare agli scioperi e/o iscriversi ad un sindacato.

Ma cosa fa in effetti un sindacato nei territori? Cosa sanno le persone del lavoro di un delegato, di un rappresentante, di un dirigente? Cosa si decide ai tavoli? Ma soprattutto, cosa si risolve? Oggigiorno, non si risolve molto: se non ci sono risorse da contrattare, non c’è contrattazione. Punto. Un’indagine di qualche anno fa rivelò che i segretari nazionali confederali erano gli unici ad avere visibilità generalizzata, mentre i dirigenti locali erano praticamente ignoti agli abitanti dei territori di riferimento. Un’analisi approfondita rivelò che la maggiore fonte di preoccupazione per i dirigenti locali era rappresentata dalla gestione interna dell’organizzazione.

Il ruolo del sindacato – in attesa di tempi economici migliori per il Paese, lungi da venire – deve essere quello di contribuire alla soluzione dei problemi territoriali con l’apporto di competenze, di idee, di nuovi punti di vista. Si può progettare, osare, rimodulare e, soprattutto, comunicare agli abitanti di un territorio una nuova visione organizzativa di una città, di un distretto. Il sindacato deve ancor più alleggerirsi dal punto di vista organizzativo: ciò che serve sono le idee, non i riti.

Si può fare. È uno slogan, ma era anche il titolo di un film, in cui Claudio Bisio, sindacalista poco ortodosso, veniva mandato in punizione a rifondare una cooperativa di disabili.

Proporre start up, co-gestioni, rilevamento di attività produttive da parte dei lavoratori: un’indagine ci rivela che otto volte su dieci un’azienda in forte crisi e/o in dismissione si recupera se gestita direttamente dai lavoratori. È più che necessario ritornare a studiare affianco dei lavoratori, perché sono questi ad avere sapienza del loro lavoro, hanno competenza, conoscono le dinamiche del loro mercato di riferimento. Tutti vantaggi cognitivi che – purtroppo – non sono più appannaggio delle organizzazioni sindacali di tipo storico.

Tag(s) : #sindacato, #scienza dell'organizzazione
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