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Rocca San Felice. The Lemon Tree

(L'originale venne pubblicato su Ottopagine l'undici ottobre del 2009.)

Un giro a Rocca San Felice m’incuriosiva. Non sono mai stata a Rocca se non di striscio. La giornata scelta per la gita è una di quelle settembrine, in cui un po’ di vento ed una pioggia notturna hanno spazzato l’aria e la luce è netta e dorata. La rocca che dà il nome al paese si staglia in fondo alla strada e pare un nido di aquila.

La strada è a basoli e le casette ai lati sono curate, piene di gerani con portali bellissimi. Sono casette basse, come case di bambola. Quasi tutte le strade sono lastricate a pietra.

Mentre scatto foto e m’incammino per salire fino al torrione centrale della rocca, la strada si riempie dell’odore di ragù – è domenica mattina – ma di quello delle nostre parti, fatto con le braciole piene di prezzemolo ed una punta di aglio fresco, quello che ‘pippea’, che sobbolle lentamente, cioè, per ore a fuoco bassissimo.

Arriviamo così, all’improvviso, davanti al Tiglio nella piazza. Il tiglio è storico, come ci racconta Lucio, dipendente comunale e nostra preparata guida “personale”: conta secoli di vita. È un bel tiglio largo che attorno a sé, sui sedili di pietra costruiti in tondo, raccoglie gli anziani o, come oggi, alcuni contadini che vendono prodotti dei loro orti. È la stessa tradizione del Lemon Tree anglosassone. Un tiglio in una piazza fa aggregazione, socialità, comunicazione e compagnia. Questa bella piazzetta-con-tiglio è però resa inospitale, al passeggio e all’ammirazione, dalla troppe auto, sia in transito che in sosta. Una grande pecca, devo dire.

Continuo il mio cammino verso la rocca. I fiori ai balconi rendono allegro il paese. Alcuni scorci di questo centro ben recuperato mi ricordano la Costiera amalfitana con le case a terrazzamenti, altri scorci mi riportano ad un’altra famosa rocca: Assisi. E si può ben dire che il panorama che qui si ammira da est ad ovest verso sud è molto simile a quello visibile dai costoni delle mura della cittadina umbra. È un panorama dall’ampio respiro, siamo a 750 mt sul livello del mare. Sui colli e le mezze alture tutto d’intorno, si scorgono Nusco e Sant’Angelo dei Lombardi, Villamaina e Torella, il Monte Tuoro, Gesualdo e Frigento. La Mefite, invece, è nascosta dietro un costone a nord del nostro orizzonte.

Salendo salendo trovo case ed angoli molto curati e colorati: scatto una foto a serti di peperoncini rossi ad asciugare. C’è un piccolo pergolato da cui scendono campane tubolari che suonano al vento.

Arrivo al piccolo museo, ricavato da una vecchia casa ristrutturata. È esposta la cosiddetta proto maiolica risalente al XIV e XII sec a.C.

Lucio mi dice che oggi la dea Mefite è dormiente (semplicemente il vento gira altrove) e non sentiamo il caratteristico e persistente odore di zolfo che invade l’aria di qui e che rende particolare l’erba del pascolo dei bovini, dal cui latte si ricava il celeberrimo Carmasciano, o formaggio rosso. La Mefite delle nostre parti (Valle di Ansanto) è un laghetto melmoso e grigio con diametro di circa 50 mt che ribolle per i gas venefici del sottosuolo. Virgilio la indicò come uno degli accessi per gli Inferi. Anche se in realtà non è collegato con alcun sistema vulcanico, tantomeno con le Terme di San Teodoro in Villamaina, dicono i geologi.

Nel Museo c’è una vecchissima trebbia a pietra, cioè un pietrone forato ed oblungo, che veniva trainato in circolo da asini, separando le parti del grano. Il Museo, ancorchè piccolo, è frutto di un’intensa opera di ricerca, costruzione e recupero di quello che è scampato nei decenni alla spoliazione dei siti, specialmente dopo il terremoto dell’Ottanta. Ci sono proiettili di pietra, mortai, macine ed anche una selce risalente al III o II millennio a.C., più o meno.

I reperti sono tanti ed anche tenuti bene. Di alcuni altri in oro e bronzo trovo solo le gigantografie sui muri, perché sono stati trasferiti nel museo provinciale ad Avellino.

Lucio mi racconta della pala lignea detta Xoanon (che è anche il nome di un gruppo musicale di Nusco). Una figura femminile allampanata e stilizzata in legno scuro, tipo wengè. È una bella icona nella sua essenzialità. Alcuni canoni estetici o artistici non hanno davvero età. Xoanon non è un nome proprio, bensì semplicemente un termine del greco antico che indicava ed indica una statua lignea raschiata, di una cultura proto-ellenica.

La strada per la rocca è in pietra a scalini, serviva per non far caracollare giù le carrozze quando i cavalli e gli asini si fermavano per la gran fatica.

Rocca San Felice deve il suo nome a San Felice da Cimitile che cominciò l’opera di trasposizione del culto della Dea Mefite verso il culto di Santa Felicita.

Arrivo in cima. Sul terrazzo più alto, dove è posta la torre tonda che racchiude una primitiva torre quadra, nascono anche i cardi. Sosto per fare una foto panoramica e per riprendere fiato.

Scendiamo passando per la Chiesa di Santa Maria Maggiore. Osservo la dicitura bilingue con perplessità. Lucio mi racconta dell’altare nero posto lungo la navata destra, che si salvò dal crollo proprio perché era stato spostato. È un altare costruito con malta nera ed affrescato ancora umido. Tecnica tuttora ignota, benché continuamente studiata, in cui si provò miseramente anche Leonardo nella mitica battaglia di Anghiari, mi sovviene. In questo altare sono dipinte anche rose canine ed uccelli che paiono pappagalli.

Gli abitanti di Rocca San Felice sono circa mille, al netto delle emigrazioni. Ha sei o sette frazioni. Nella ricostruzione delle case sono stati inglobati molti reperti trovati nelle campagne. Casa Santoli, dietro al tiglio della piazza, è uno di questi esempi.

Il portale di un’altra casa nella piazza è stato trasferito direttamente dalla rocca.

Mi fermo sotto il tiglio e guardo passare donne anziane con il ‘sinale’ raccolto ad uso sporta. Tra gli ortaggi in vendita, scorgo i peperoni rossi, quelli grossi e allungati a cono, che da queste parti sbriciolano (una volta biscottati) per condire il baccalà, detto alla ‘pertecara’ o, più ad ovest, alla ‘pertecaregna’. La ‘perteca’ , mi spiega Michelangelo, era il primo rudimentale aratro, esattamente una grossa pertica che i buoi trascinavano incidendo i campi. Il baccalà in tale abito era il piatto più semplice che questi agricoltori mangiavano nella mattinata, dopo le prime quattro ore di fatica.

Questa gita a Rocca San Felice mi è molto piaciuta. Rocca è un bel paesino, molto curato e pulito, nonostante le auto che soffocano la piazza con il bel tiglio. I figli di questo paese non lo hanno mai lasciato del tutto ed anche se lavorano lontano hanno voluto mantenere le loro casette, con i terrazzini pieni di gerani rossi. Penso che a Rocca San Felice sia bello vivere, specialmente la domenica mattina, quando l’odore del ragù in cottura, che si spande per il paese, promette e mantiene affetti e tradizioni.

Rocca San Felice. The Lemon Tree
Rocca San Felice. The Lemon Tree
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Tag(s) : #reportage in Irpinia, #Rocca San Felice
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