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Schizofrenie comunicative. (Ovvero, perchè siamo ancora a questo punto)

(L'originale di questo articolo lo trovate su xxdonne.net, al link sotto.)

A me piace abbastanza RaiStoria.

Di solito ne sbircio un pochino la mattina, durante la colazione.

Stamane, per esempio, rimandavano un documentario del 1959 di Slavi e Zavattini dal titolo “Donne e potere”, nell’ambito del contenitore “S(oggetto) donna”.

Ovviamente in bianco e nero, si trattava di una raccolta di testimonianze presuntivamente asettiche e neutre sulle donne che svolgevano professioni maschili o si azzardavano a osare di più nel loro campo di attività.

C’era la donna ingegnere dei trasporti che aveva imparato a guidare il tram a sedici anni e che le era tanto piaciuto da occuparsene per la vita; c’era il chirurgo plastico-ortopedico: una tipa con i baffetti (allora la ceretta non era diffusa, penso) che parlava dei suoi mille e cinquecento interventi, al di fuori di quelli di cui era stata l’assistente e che con un sorriso d’imbarazzo diceva che anche gli uomini si rivolgono con fiducia a lei; c’era la prima donna capostazione d’Italia, che faceva servizio a Cerveteri-Ladispoli, la quale ha detto senza mezzi termini (per quei tempi): “Voi pensate che sia strana una donna capostazione. Ma io no.” C’era l’astrofisica che, non potendo fare attività di laboratorio per via dei figli piccoli, si era messa a scrivere libri di divulgazione sull’argomento. C’era la giovane infermiera che studiava già da capo-sala. Ci si meravigliava (ma con aplomb giornalistico) che le donne scegliessero facoltà come Fisica o Ingegneria e che sapessero utilizzare complesse attrezzature per gli esperimenti chimici.

È stata anche mostrata l’esperienza di due donne giudici-popolari. (Per inciso, mi ricordo che anche mia zia negli Anni ’70 fece due volte quest’esperienza. Ce ne raccontava come di una cosa grave e importante. Mi ricordo anche che comprò due parrucche diverse che indossò alternativamente per tutto il tempo dei processi, allo scopo di evitare una facile riconoscibilità da parte degli imputati e dei loro congiunti. Si trattava di due omicidi e una volta raccontò di un coltellaccio da macellaio tutto insanguinato. Io mi feci la convinzione che mia zia era una vera ‘tosta’ e che aveva dei bellissimi occhialoni scuri da diva che metteva nei sopralluoghi sulla scena del crimine. Prodromi di CSI.)

Tornando al documentario, le esperienze narrate erano state trattate come casi di studio e punte di avanguardia per le donne di allora. Tutto questo catalogo televisivo raccoglieva le testimonianze quali eccezioni da mostrare e il commento parlava serenamente di donne come risorse! (Dire che le donne sono una risorsa, mi fa davvero imbestialire.)

Eppure – pensavo durante la visione – anche queste trasmissioni, che oggi fanno ridere e che presentavano le donne professioniste quali ‘novità’, potevano avere una funzione importante. Un po’ come la faccenda delle quote di genere: occorre inserirle anche se intellettualmente non sono condivisibili, perchè prima o poi diventerà naturale avere e accettare una maggiore presenza femminile nei luoghi pubblici/di potere/di decisione. (È successo in Scandinavia, perché non potrebbe accadere anche da noi? Il primo che dice che sono una visionaria, lo cancello dai miei followers su Twitter.) Era necessario mostrare le donne ‘pioniere’ quali esempi da imitare, in modo da far accettare il cambiamento sociale, in un’Italia del boom che aveva bisogno di cervelli, intuizioni, manodopera.

Eppure, il documentario, per altro interessante, si chiudeva con la visione di una mamma operaia che scende dal tram dopo aver fatto il turno di notte in fabbrica e trova sul portone della sua Ina-casa una bimbetta che l’accoglie e l’abbraccia come se la mamma fosse tornata dal confino. In sottofondo, si poteva ascoltare la canzone sul lamento di un’operaia turnista.

Emancipazione, avanguardia, parità… sì sì, tutto occhèi. Ma alla fin fine (siamo sempre nel 1959) il posto della donna è a casa, mica al lavoro. Il documentario, con l’ultima scena strappalacrime, contraddice tutto quello che aveva mostrato prima. Schizofrenia comunicativa funzionale allo status quo maschilista, la definirei. Ecco perché nel terzo millennio, a più di cinquant’anni dal documentario (pseudo-avanguardista) di Zavattini, stiamo ancora a parlare di disoccupazione femminile gravissima, di discriminazioni di genere, di femminicidi passionali. E di donne come risorsa.

Tag(s) : #RaiStoria, #discriminazioni di genere
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