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Iescë, arrobbë, tocchë ‘e ffemmenë…

Stavate quasi quasi per beccarvi un pezzo sul Professor Cacciari, il quale — del piddì, se per caso non sembrasse — prima sparava addosso a tutti alle primarie per il segretario, per un breve periodo diceva che votare Renzi era il meno peggio ed oggi (alla trasmissione “La Zanzara") ha affermato che voterà Grillo, perché — pare — si sia stufato.
Poi, ho pensato che questa rubrica non è nata per ammorbare il prossimo e così passo a discutere di dialetti.
Mi è venuto in mente la settimana scorsa, quando, in un grande magazzino di Salerno, tra gli scaffali, giravano una madre anziana ed il suo maturo figliolo che si confrontavano sugli acquisti parlando in veneto. Va da se che la circostanza di udire un dialetto veneto stretto non è per nulla comune alle nostre latitudini e che la cosa destava l’attenzione di parecchi, anche perché il figliolo — ad un certo punto — si è imbarcato in una discussione di lavoro al cellulare, continuando a parlare in veneto ed alzando — tragedia! — pure il volume della voce. Con ciò si dimostra che la truzzeria è universale. Immaginatevi che scalpore se al nord, uno di noi si fosse messo a parlare al cellulare in un supermercato in vernacolo bisaccese, o grottese o solofrano.
Dicevamo del dialetto. Con mia personale preoccupazione, ho constatato di aver provato disagio ad ascoltare un dialetto esotico. Non tanto perché non capivo cosa dicessero, ma perché un dialetto — per me — sa di casa, di ’terramia’, di confidenza ed intimità, tutta roba che non ho con i veneti, ma neanche con i piemontesi, i lombardi, i valdostani, e così via.
Ma la mia riflessione sul dialetto è andata oltre lo spiazzamento.
Mi è venuto in mente se per caso non fosse stato diverso se i due non avessero parlato dialetto, ma solo un italiano con inflessione veneta. Mi sono detta che sarebbe stato più accettabile, quindi, il problema è il luogo pubblico. Da questa considerazione alla teoria di Meyrowitz il passo è stato breve. Lo studioso statunitense ("Oltre il senso del luogo" è suo) dettagliò lo spiazzamento comportamentale e comunicativo delle persone alle prese con contesti differenti. Ovverosia, in una chiesa non griderei mai "Arbitro cornuto!" (anche se allo stadio una preghierina per un gol della mia squadra ci starebbe, ogni tanto). Lo spiazzamento è una delle tecniche della comicità, per esempio, in cui i maestri erano Stan Laurel e Oliver Hardy, sempre mirabilmente fuori luogo.
Qui da noi o si parla dialetto campano o ci si contenta di un italiano standard. In Veneto, si parla veneto. In Piemonte si parla piemontese e via discorrendo.
Non si tratta di razzismo o di campanilismo, ma di abitudine. É come se a casa ti spostassero le cose negli armadi e nei cassetti: non ti ci ritrovi, perché il dialetto determina un contesto.
Tuttavia, ci sono dialetti ed inflessioni che esondano il contesto locale. E questa — mi spiace per gli altri idiomi – è una bella e peculiare caratteristica del dilaletto partenopeo. “That’s Ammore” è scritta in partenop-english, mica in venet-english.
Personalmente, utilizzo il dialetto (anche qui, ve ne sarete accorti, vero?) come immancabile trait-d’union tra il mio “se” pubblico e quello privato. Non mi piace, nella maniera più assoluta, marcare alcuna differenza nel mio essere, attraverso i luoghi che frequento, in cui vivo o lavoro. Non so perché, ma trovo terribilmente ridicoli coloro che si paludano e s’irrigidiscono in un ruolo e poi a casa sono tutt’altro, ovvero continuano a mantenersi paludati e algidi anche a casa, dove non ce n’è bisogno.
Io sono per il non prendersi mai troppo sul serio e se qualche volta m’irrigidisco è solo perché sto arrabbiata. Sapevatelo.
“Iescë, arrobbë, tocchë ‘e ffemmenë…” Sorridete alla vita, mangiatevi un’emozione e parlate dialetto ogni tanto.

Tag(s) : #La Cugina di Parascandolo, #dialetto
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