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Castelvetere sul Calore - Seconda parte

Il centro storico di Castelvetere è tutto di proprietà comunale. È stato ricostruito e attrezzato mediante i Fondi europei, consta di tredici abitazioni rifinite per un totale di trentanove posti letto, con anche le strutture di accoglienza, come il già citato ristorante (mai attivato, dotato pure della affettatrice, dei tovagliati e tanto altro), una sala congressi, due ascensori e una “zona festival”. Scopro questo borgo che pare una casa intera, piena di angoli e ambienti: qua è la zona giorno, qui le camere da letto, là prendiamo il tè sull’affacciata, sulla terrazza ampia, invece, allestiamo il tavolo per pranzare fuori.

Il recupero conservativo è stato attento alla storia ed alle tradizioni, ma ancora c’è qualche brandello da ricostruire, verso i margini a sud est.

È, tra l’altro, uno dei villaggi della tradizione, l’aria è buona e la vita è sana, qui. L’ultimo abitante del centro storico è morto a 102 anni.

Questo bel borgo è però chiuso da una cancellata, ad un certo punto. La mise il gestore per impedire l’accesso (a chi, poi, se non viene mai nessuno?) e forse per una sorta di rivincita verso l’Amministrazione.

Per circa seimila euro annui base d’asta - e con manutenzione a carico del Comune – ci si può aggiudicare tutto il complesso. Già. Ma per fare che?

Alla fine – e poi cambiamo discorso – pare che Pino Daniele, divenuto nel frattempo cittadino onorario del paese, abbia ottenuto (per vie legali) anche il pagamento di una quota per danni da parte del Comune per l’accordo che non è stato fatto/mantenuto. Forse perché lo staff della joint venture non era competente, forse per l’inesperienza locale in gestioni pubblico-private. “Eppure, le idee c’erano”, conclude Mick.

Camminiamo in questa ventosa e fredda giornata e i miei due chaperon sono un torrente in piena. Hanno tanto da raccontare del loro amatissimo paese. È il loro cruccio non aver potuto fare qualcosa, mentre ora si sta spegnando. La politica (o un certo modo di farla) ha frenato tanto, forse tutto.

Delle gesta dell’On. Sullo non rimane che il ricordo. Come quello che mi raccontava mia madre.

Una volta, l’On Sullo, arrivò nel Comune dove mio nonno – Segretario Comunale – lavorava, forse San Mango, forse Greci, o Chiusano, ora non mi sovviene con precisione. In una pausa del comizio, si sedette e, incrociando le gambe, mostrò, inconsapevolmente, le suole delle scarpe, bucate.

Mio nonno disse allora a mia madre, ragazza, “Vedi Mari’, quello è uno che ci crede.”

Lo stato delle suole svelava il suo impegno. È un aneddoto a suo modo candido e commovente. Il paragone con l’attualità è improponibile.

È vero, ci si innamora di Castelvetere. E per un po’ tutti hanno creduto nel sogno. Poi, ci si arrende al destino delle nostre terre meridionali. “I migliori vanno via”, dice Franco, “Anche il metanodotto si è fermato a Montemarano”, dice sconsolato.

Gli sguardi dei miei ciceroni, si spostano ad intervalli dal selciato all’orizzonte, come in cerca di una risposta. Per qualche attimo ogni tanto, si perdono nel vuoto senza trovare niente di ragionevole, o quanto meno di una logicità qualsiasi - seppur penalizzante per la comunità - a loro ignota ed inaccettabile.

Sostiamo accanto alla Chiesa della Madonna delle Grazie, circondata da una base zigzagante. Chiedo.

“Una nevicata, in un 28 aprile di un anno imprecisato del primo Millennio, delimitò l’area sulla quale doveva essere edificata la Chiesa. Tale era la prescrizione contenuta nel sogno di una vecchietta, cui apparve la Madonna”, dice Franco. Infatti, il 28 aprile ricorre la festa patronale.

Questa è una storia interessante e chiunque può constatare i confini asimmetrici dell’area. Faccio una foto.

Castelvetere, che è tutta nel Parco dei Picentini, conta cinque frazioni. Una di queste, Santa Lucia, è stata citata da Francesco de Santis nel suo “Viaggio Elettorale”, quale accogliente sede di posta.

Ma forse tutta Castelvetere può fregiarsi di una citazione aere perennius: Virgilio la chiama Caulonia (da aulon, valle in greco) nell’Eneide.

C’è un punto nel paese da cui si vede pure il mare verso ovest e tutt’attorno si scorgono ben ventotto paesi. Non c’è che dire, è un bel panorama. Solo Frigento, la terrazza del Pleistocene, ha una visuale più ampia.

Tra i nuvoloni che rapidi si muovono, il sole che fa capolino riscalda un po’.

Zona fredda, cibi calorici, come mugliatielli (di suino) e maccaronara. Ma anche aglianico DOCG (è la zona) con una sola cantina di imbottigliamento, però. Economia boschiva (le castagne di alta quota di queste parti sono diverse dalle montellesi, per esempio) e fluviale: altro che PIP, dove insiste una sola azienda (avicola), perché l’altra che c’era è pure fallita.

Socialmente parlando, si soffre abbastanza anche a Castelvetere, come in tanta parte d’Irpinia. Il trasporto pubblico è rarefatto, non ci sono giovani, nascono pochissimi bambini.

Il sogno si è interrotto. Come quasi dappertutto qui da noi, non c’è un’idea globale per uno sviluppo globale. Non si è ancora capita la vocazione, anche se tutti quanti recitano ora il mantra del “turismo”. Forse, siamo davvero destinati a morire lentamente, avendo perso senza neanche combattere, perché il nemico è sconosciuto: mancanza di infrastrutture, di capitali, di spirito imprenditoriale, o di coraggio? È questione antropologica o storica? Condannati da Cavour o dalla fine del Piano Marshall? Fra qualche anno, l’esaurimento dei Fondi Comunitari ci darà il colpo di grazia.

Qui a Castelvetere, le strutture per un turismo alternativo - alle zone costiere ed archeologiche - di low profile o under statement (si dice così, oh yeah!) ci sarebbero pure. Altrove, non esistono neanche.

Cosa serve ancora? Cosa manca? Forse il progetto del cantautore non era realizzabile (o forse era troppo privatistico), ma neanche si è provato, però: un attrattore non è sempre immediatamente redditizio. Ci vuole tempo, pazienza e cultura imprenditoriale. Ma questa ultima cosa è come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha, mica se lo può dare.

A distanza di anni, dopo essere stati avversari in Consiglio Comunale, Mick e Franco sono d’accordo su tutto. Rievocano gli anni d’impegno nell’Amministrazione e ancora si stupiscono di come non sia servito praticamente a niente se oggi abbiamo camminato tra vicoli deserti e case vuote, come fosse naturale un posto irreale così.

Sulla strada verso Avellino, Mick mi racconta di come si giocava a bob lungo i vicoli innevati del paese, stra-felici, pieni di ‘rognole’ (echimosi escoriate), con le gote rubizze e pieni di grandi speranze. Anche Dickens – che di povertà se ne intendeva – scrisse un’opera, Great Expectations, Grandi Speranze, appunto. Ma era quasi due secoli fa.

In Italia, però, c’è chi ci sta provando a far rinascere i paesi (anche piccolissimi) mediante la tecnologia. Si può fare?

Leggevo alcune settimane fa di un minuscolo paese di mezza montagna in Piemonte, Álice (sì, con l’accento sulla ‘a’). Praticamente condannato: erano rimasti solo gli anziani dopo l’esodo, quando l’industria ad Ivrea finì. Una rete Internet poderosa, agevolazioni abitative, una farmacia, un nucleo di Protezione Civile ed ecco che i giovani sono ritornati: in dieci anni ci sono stati circa 100 nuovi abitanti. Essere collegati, significa poter lavorare da casa, oppure mantenersi sempre in contatto con il mondo anche se abiti fuori dalle direttrici. Il Web serve ai giovani (cioè, tutti quelli che non sono anziani) a non essere tagliati fuori dalla vita, in più nei paesi la vita è salubre. L’auto si prende per lavoro o per fare la spesa, il resto lo trovi nel paese. Ha ragione Franco Moccia sulla necessità di una buona ADSL per le zone interne. Non averla, sembra ormai una condanna alla morte civile.

Non si può assistere alla lenta agonia dei nostri paesi, cercando di farli rivivere solo con sagre, grigliate e feste di piazza. Attrarre, laddove non c’è archeologia o arte, significa diventare veicolo culturale: bisogna produrre più occasioni culturali per gli abitanti. Ci prova Santo Stefano del Sole, in Irpinia, con il suo festival della Matematica. C’è riuscita Giffoni Valle Piana con il suo, ormai internazionale, Festival del Cinema.

Mick si chiede a cosa sia servito il suo senso civico ed il suo amore verso il paesino, se ora il paese sta morendo (e manca pure l’ADSL!) e lui prega San Precario. Neanche le singole volontà messe assieme sono riuscite o riescono a modificare un’ineluttabilità straziante, una tristezza che, come un blob inglobante, ricopre territori e comunità. Ma Castelvetere è un bel paesino. Potessimo metterlo in una boccia con la neve, si conserverebbe. Almeno.

Castelvetere sul Calore - Seconda parte
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Tag(s) : #reportage in Irpinia, #Castelvetere sul CAlore
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