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Obama in Italì

Volevo scrivere un ’pezzullo’ sulla meditazione (dichiarata panacea per ogni male), ma alla fine scriverò una cosetta sulla visita di Obamà a Roma. La cronaca lo richiede.

Che Barack sia un gran personaggio è indubbio. Anche a me sarebbe venuta la tremarella se avessi avuto l’opportunità di incontrarlo. Ma io sono un moscerino. Anzi, una moscerina (ci tengo alle concordanze grammaticali, ecco).

Gli Americans hanno un modo così eccessivo di essere ... Americani che mi sorprendono sempre. Sarà perché il minimalismo quotidiano è il mio mainstream, sarà perché a guardarli bene sembrano una manica di esaltatelli un po’ fanatici (forse vedo troppi cartoni di "American Dad"). Certo, non son tutti così, ma hanno questo loro modo fanfaresco di fare la migliore propaganda di loro stessi, innanzitutto nella loro Patria. E visto che funziona lì, hanno pensato bene — negli anni — di esportarne un po’. Talvolta, hanno acchiappato gragnuole di randellate, tuttavia non si sono arresi: arrendersi giammai.

Fanno tutto così eccessivo, tanto per dirne una hanno un passaporto ipercromatico, con il disegno di un’aquila bruttarella proprio: ci avessero messo l’aquila reale sarebbe stato tutto un altro stile. Ma cosa vogliamo da un popolo il cui longilineo ed elegante (un miracolo!) Presidente usa come misura di superficie un campo di baseball? Sì sì, ho capito: il Colosseo era uno stadio per i divertimenti dell’Antica Roma, mica altro. E poi quella teoria di crossover blindati, con il tocco dello sportellone posteriore aperto, con marines stile-assalto. Che figata!

Vi voglio raccontare un episodietto cui ho assistito alcuni anni fa, al porto di Salerno, punto mare Masuccio, per l’esattezza, dove ci sono le barche da diporto, non dove c’è la Capitaneria di Porto, le pilotine della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza (fra qualche riga capirete perché). Lo trovo emblematico per dare la misura di come gli Americani coltivano la loro grandezza, anche d’immagine. Ce l’hanno proprio dentro, è più forte di loro.

Era un bel pomeriggio di sole d’inizio di primavera, troppo presto per le corse del metrò del mare. Ordunque, mentre mi trovavo a guardare le barche sulla banchina degli attracchi (amo guardare le barche), vedo arrivare una specie di ibrido tra un tender, una pilotina ed una moto d’acqua. Un mostriciattolo, tutto nero, con cromature in dorato. Con tanto di svettante bandierina stars&stripes, scritta "U.S. Army" ed il nome della nave (che proprio non mi ricordo) cui appartiene, equipaggiata con due ragazzoni in candida divisa. Mentre accosta, vedo avvicinarsi tomi tomi due nostri militi, della Capitaneria. Serafici, calmi, con quella simpatia tutta nostra partenopea.
La pilotina USA attracca, i nostri prendono la cima e la ancorano. Saluti e strette di mano. Loro lì, sull’imbarcazione, e i nostri sulla terraferma. Convenevoli di prassi e i marinai USA fanno per allungare il piede sulla banchina. I nostri fanno un gesto dolce per dire che non è opportuno. Giustamente. La barca è territorio USA e lì possono (anzi devono stare): ci hanno provato.

Non capisco cosa si dicono, ma penso che i ragazzotti aspettino qualcuno. I nostri continuano a tenere loro compagnia, un modo gentile e tutto nostro per controllare che rispettino le regole. I ragazzoni yankee, dopo un po’ di chiacchiere, capiscono l’antifona: non si scende a terra. Così, tirano fuori (diamine che organizzazione!) panni e vetril e cominciano come forsennati a lucidare il tender, che a me sembra già troppo pulito e lucido. Lo fanno brillare come un ninnolo di cristallo Baccarat, incuranti del fatto che trattasi di un’imbarcazione che da lì a poco sarà nuovamente ricoperta di schizzi. Mah, penso tra me e Marika: ’sti Americani!

La storia finisce quando ad un certo punto arrivano due men-in-black con tanto di occhiali scuri alla Blues Brothers e valigetta (forse diplomatica?), si agganciano ai sellini posteriori e partono, mentre il vento impenna le loro cravatte.

Quindi? L’episodio è un incontro tra due civiltà. La loro, efficiente, maniaca, esagerata. La nostra, sornionamente cazzimmosa. Ma noi abbiamo il Colosseo, però.

La civiltà americana, per esempio, ha consigliato a Mister President di regalare al Papa dei sacchetti di semi dell’orto di Washington. (Il valore commerciale maggiore era delle sacchettelle di velluto blu, raccolte in una cassetta di legno a comparti, credetemi.) Quella italiana (di cui il Vaticano è parte integrante) ha pensato di omaggiare con un più canonico souvenir, in bronzo però, raffigurante lo Stato papalino, una cosa d’arte, come i quadri su sfoglia d’argento. Mica le smanie salutiste di Michelle.

Ultima nota e poi finisco di ammorbarvi. Molti media (soprattutto oltre Atlantico) hanno liquidato l’incontro tra Obama e Napolitano in due righe. Solo il TG1 (giovedì sera) ha dedicato la maggior parte del tempo a magnificare i venti-minuti-venti (hanno pure enfatizzato uno sforamento di ulteriori dieci minuti, ma dieci minuti sono il tempo che occorre ad attraversare i corridoi del Quirinale) di saluti, pacche sulle scapole e colpetti agli omeri tra Barack e Giorgio. Su «Dagospia» — che è fantastico — ho letto questa perla: "Ma tra il colloquio con Bergoglio e la visita privata al Colosseo, Obama ha dovuto incontrare anche il presidente della Repubblica e il nuovo premier. Per il primo ha espresso le solite parole di ammirazione: «L’Italia è fortunata ad avere un uomo di Stato così forte, che aiuta il Paese in momenti così difficili». Chissà che gli devono aver raccontato della situazione italiana."

Di Renzi, delle sue smorfie e del caso Marò ne parlerò un'altra volta. Cià.

(La foto in alto non c'entra molto con Obama, ma è che una volta ho visto la Banda della Marina USA. Gente gasata, entusiasta, efficiente, con le scarpe e gli ottoni,lucidati a specchio.)

Tag(s) : #La Cugina di Parascandolo
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