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Se muore Venezia

Venezia muore ed Avellino non si sente tanto bene. (Sì, ho parafrasato Woody Allen.)

Succede di aver letto un articolo su «La Repubblica» in merito al saggio di Salvatore Settis, famoso storico dell'arte, dal titolo "Se Venezia muore" (Einaudi). Nell'articolo si riassumono le cause per le quali -- di solito -- muoiono le città: distrutte come Cartagine; invase come Tenochtitlàn; o per indifferenza, come Atene. Spiega Settis: "Come accade a chi perde la memoria, anche le città quando sono colte da amnesia collettiva, tendono a dimenticare la propria dignità. […] ma perché il sipario avvolga ogni cosa in una notte indistinta, non c'è bisogno di complicità: basta l'indifferenza."

Avvampo (metaforicamente): qui si parla di Avellino, mi dico. Altro che Atene! Leggo più avanti che Settis accomuna la dipartita di Atene -- per l'indifferenza degli ateniesi -- all'agonia di Venezia, per l'indifferenza dei veneziani. Ohimamma, ma come fa a morire Venezia? Tutt'al più 'si' muore a Venezia, come ci raccontò anni e anni fa Thomas Mann. Incuriosita, continuo avidamente a leggere l'articolo e scopro che Settis fonda la sua teoria su solide basi demografiche. In meno di sei secoli gli abitanti di Venezia insulare sono più che dimezzati, ed il calo continua inesorabile: invecchiamento ed esodo, smembramento delle famiglie, bassa natalità, contrazione demografica.

No. Non è possibile: siamo noi avellinesi sputati. Venezia muore per le stesse cause demografiche di Avellino, accidenti. Potrebbe essere un onore (ma anche un alibi) perire della stessa inedia/ignavia/indifferenza/spopolamento/abbandono di cui soffre Venezia. E, come se non bastasse, leggo un'altra descrizione: "[…] una defunta città che si riempie e si svuota ad orario e tempo fisso. Ma in anticipo sulla città, un'altra cosa è morta prima, a tempo debito: la democrazia e le sue istituzioni, svuotate dai cittadini […]"

Uguale, proprio uguale ad Avellino le cui strade si riempiono e si svuotano ad orari fissi, la cui democrazia e le sue istituzioni sono una rappresentazione di loro stesse. Oddio, una differenza (e pure grande) tra Venezia e il nostro borgo ci sta. Il turismo iper-spinto ha trasformato la Serenissima in una sorta di dormitorio per i nuovi ricchissimi proprietari di case antiche e storiche (che ci vanno cinque giorni all'anno) e per i milioni (circa 34 all'anno) di turisti nelle centinaia di B&B sorti per sfruttare al meglio la città. C'è un'economia che ha spremuto e continua ancora a spremere una delle città più celebrate al mondo e che ora muore perché gli ex abitanti l'hanno pensata come un'impresa, un'azienda che produce reddito.

Ecchissene se non ci abita nessuno, l'importante è che resista (MOSE o non MOSE) come attrazione e continui a far guadagnare. Venezia, come un parco a tema. Città imbalsamata, in una boccia con acqua e neve finta. Deve rimanere così, perché così è utile e funzionale all'economia locale. Mi sono immaginata su uno dei tanti ponti di quelle enormi navi da crociera che attraccano a Venezia. Sì, sì, al di là del danno e dello sconcio, volete mettere l'emozione di arrivare quasi a toccare il campanile di San Marco con un mastodonte che ti porta fino a lì?

Questo è ciò che conta: c'è un collettivo (d'imprenditori, commercianti, albergatori) che preme per la continuità della prestazione turistica. Che volete che conti se Venezia non è più stabilmente abitata, quindi amata, curata e partecipata?

E noi? Noi avellinesi, dico. La nostra non è assolutamente una città turistica, tuttavia ugualmente prestazionale. Si riempie nelle ore diurne e si svuota nel primo pomeriggio, a causa del pendolarismo scolastico e lavorativo. La conurbazione (Mercogliano, Monteforte, Aiello, Cesinali) ne segue il destino, perché è il dormitorio lontano, satellite del capoluogo regionale. È come un supermercato: vai, compri e te ne esci. Si sta poco in un supermercato, pur tuttavia è affollato. Durante il giorno, e tutti i giorni, si accumulano i passi di centinaia e centinaia di persone che entrano ed escono. Se nel carrello che prendiamo ci sono delle cartacce lasciate dal cliente di prima, possiamo indignarci, ma non ce ne freghiamo: il supermercato non è nostro. E se ci capitterà, le cartacce le lasceremo anche noi, a nostra volta.

Chi usa la nostra città non ha motivo di curarla, abbellirla o impegnarsi civicamente, tantomeno elettoralmente. Non è un atto di accusa: è così e lo dice anche Settis a proposito di Venezia. A che serve spendersi per un luogo che (da fruitore esterno o temporaneo) lasci prima di sera? Questo andazzo, l'abitudine di lasciare la città al suo destino di degrado e spopolamento, ha -- però e purtroppo -- preso tutti, anche gli abitanti stanziali. Siamo diventati indifferenti alle sorti di Avellino, esattamente come i veneziani alle sorti di Venezia come comunità. Siamo tutti clienti veloci di un supermercato.

Le persone esperte, o in gamba, o con altissimo senso civico, quelle che potrebbero davvero migliorare la comunità non si associano alla politica o se capita di farsi agganciare all'inizio, avendo compreso l'antifona, se ne discostano. Magari, succede come adesso con i rimpasti qui da noi: andati (o mandati) via i tecnici, o i più bravi o i più ingenui, la marea porterà sul bagnasciuga qualunque altra cosa. E quindi?

Ce lo chiedono i Lettori: e quindi?

Prima, vediamo un po' che dice Settis in proposito, non si sa mai che valga anche per questo schizzetto in fondovalle che è il nostro borgo. Settis ha individuato in alcuni cittadini del centro storico veneziano una sorta di ghetto resistente, che potrebbe diventare una forza "solo se l'assediata comunità dei pochi saprà acquistare consapevolezza, sviluppare solidarietà sociale e capacità progettuale, esercitare il diritto di parola."

Eh, la vedo complicata. Innanzitutto, prima da abitante del centro storico e poi da giornalista, posso dire che il diritto di parola è un mio esercizio quotidiano. Tuttavia, non mi/ci è bastato. Assieme a me hanno protestato e protestano, in diversi modi e forme, molti altri concittadini del quartiere e persone di ottima volontà che si preoccupano dei luoghi (Dogana, Collina della Terra, Victor Hugo, Piazza Castello, Piazza Libertà).

Non è servito a nulla, se -- tanto per dirne una -- finanche la recentissima impalcatura attorno alla pericolante Dogana è 'schioppata' e così rimarrà. (Giusto una domanda: ma che tipo d'impatto può essere stato per divellere le sbarre in cotal guisa in una strada così stretta? Mah.)

L'idea di degrado è talmente pervasiva che non si salva niente. L'idea di degrado è talmente pervasiva che si dipingono strisce blu a ridosso degli incroci, talmente a ridosso che si perde totalmente la visuale creando seri problemi alla sicurezza stradale. Ma come è venuta in mente una cretinaggine simile? Qualcuno mi ha detto: ma se non si dipingono le strisce blu che fanno da (quasi) deterrente per via del pedaggio, la gente parcheggerebbe anche peggio. Ma questa è perversione!

No. Mi sa che Settis ha una visione romantica e ottativa sul futuro di Venezia. Noi, ad Avellino, neanche quella.

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Tag(s) : #Avellino, #inciviltà urbane
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