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Cecini non pascua, nec rura, nec duces

Il dibattito sulle lamentazioni degli Avellinesi continua. E non solo su questa testata. Raccolgo commenti ed episodi anche da altre fonti e da altri luoghi di discussione.

Abbiamo compreso che:
a) agli Avellinesi piace lamentarsi, anche di coloro che si lamentano;
b) la lamentatio deve essere costante (cronica) e non aumentare bruscamente (nessuna acuzia, cioè), neanche in presenza di reali eventi tragici (es. l’apertura di un ennesimo infinito cantiere in Città), perché l’Avellinese deve avere tempo per assorbire la tragedia che si protrarrà nel tempo;
c) quando le lamentazioni (singole o mediatiche) raggiungono la soglia di alert, c’è sempre qualcuno che si produce in pipponcini ‘positivi’ perché ‘non è umanamente possibile che vada proprio tutto male’, ovvero che ‘lamentarsi non serve a niente’;
d) agli Avellinesi non piace che i ‘forestieri’ li critichino per la loro lamentosità, perché giustamente — ma questo è un sacrosanto principio di psicologia sociale – i legittimi titolari della lamentazione autoctona sono gli indigeni;
e) i giornalisti (locali e non) non devono unirsi al coro delle lamentazioni, sennò si alza la soglia (vedi punto c).

Il fatto è che chi vive in un luogo non ama vederselo denigrare (troppo o da estranei), altrimenti va in crisi di autostima. Sarebbe come ammettere di aver sbagliato posto nel mondo, ovvero di non aver l’intelligenza e la volontà per migliorare la qualità della propria vita in una comunità. Ovvero ancora, di non aver abbastanza intelligenza e volontà per fuggirne.

Come ho già avuto modo di ripetere, ad alcuni la nostra Città non sembra così male perché ci sono abituati. La natura umana è tale che ci si abitua a tutto. Il nostro istinto di sopravvivenza ci rende adattabili. Ci fa trovare ragioni e motivi per sopportare il degrado, l’incuria, l’inquinamento, il traffico e tutto il resto.

Ottimi scienziati hanno studiato il fenomeno per il quale anche in circostanze tragiche gli uomini riescono a sorridere. Oliver Sacks è stato uno di questi studiosi, per esempio. Ma anche la sopravvivenza di alcuni nelle circostanze più tragiche (i campi di sterminio, per esempio) può dipendere dalla grande capacità di adattamento, decontestualizzazione e straniamento degli uomini.

Il film di Roberto Benigni – “La vita è bella — è il parossismo artistico di questo aspetto adattivo umano, ma rende l’idea. Sabato mattina ho partecipato a Salerno ad una giornata di formazione obbligatoria per giornalisti. Un antropologo (Paolo Apolito) e un giornalista RAI (Roberto Olla) ci hanno spiegato come raccontare le tragicità (guerre, genocidi, sterminii, terrorismo). Ai lavori era presente la vedova di Shlomo Venezia, Marika Kaufmann, minuta e dolce ungherese. La storia personale di Shlomo Venezia (sopravvissuto alla Shoah e consulente di Benigni nella ricostruzione psicologica degli internati ad Auschwitz) fu segnata da un quarantennio di lungo silenzio dopo la liberazione dal lager, prima di poter accettare una tragica verità e non sentirsi colpevole in quanto prigioniero senza dignità, inferiore ad uno schiavo, paragonato ad ein Stück, un ‘pezzo’.

L’accostamento tra il più tragico evento della Storia contemporanea e le reazioni psicologiche adattive nella nostra Città non è forzato, come potrebbe sembrare. Certo, i gradienti sono diversi, ma è sempre nel solco del comportamento abitudinario. L’uomo sopravvive grazie all’abitudine inerziale. Se non avviene qualcosa che scuota l’inerzia dell’abitudine, non ci accorgeremo mai che ci stiamo mitridatizzando. Il che sarebbe l’assunzione (consapevole o indotta) quotidiana di piccole dosi di veleno al fine di diventarne immuni. La stessa propaganda nazista aveva come fine inculcare l’abitudine a pensare così male degli Ebrei che la loro scomparsa dalle città non doveva essere (e non fu) considerata una tragedia, tutt’altro.

Mutatis mutandis, l’assuefazione al peggio è l’unica soluzione che possiamo adottare?

Uno dei rimedi salvifici sarebbe quello di cominciare a confrontarci con altre e migliori realtà. Molti di noi si attaccano al luogo comune che ‘tutto il mondo è paese’ e che quindi miserie e gioie si compensino dappertutto. E no! Non è così. Vivere al ribasso delle aspettative per non suicidarsi come cittadinanza/comunità non può essere una strategia di lungo termine. Non funziona.

Mi ricordo che alcuni lustri fa la città di Brindisi era messa davvero male. Pericolosa q.b, urbanisticamente dimenticata, turisticamente inappetibile (se non come via di mare per Balcani e Ellesponto e per la colonna finale della via Appia). Brindisi ha vissuto recentemente un riscatto ed ora è trasformata (ho messo alcune foto in gallery). Ho visto anche lì molti cantieri, ma abbastanza razionali nella gestione. Diciamo che ora a Brindisi torno molto volentieri: è una bella città.

Esempi possono essere trovati anche altrove. Tipo Matera, per esempio. Al di là dei Sassi, chi si aspettava potesse concorrere a Capitale della Cultura? Ho potuto constatare molto fermento attorno a Matera, perché ci sono comunità che amano moltissimo i loro luoghi ed hanno un moto di riscatto decisivo. Ovvio che, però, da soli non ce la si fa. Il ruolo delle istituzioni e delle amministrazioni è basilare.

La settimana scorsa, durante la puntata di «PrimaLinea», si è parlato di ‘Avellino trappola generazionale’ (qui la prima parte e qui la seconda.)
I ragazzi ospiti (almeno i più giovani) hanno dichiarato che ad un certo punto – data l’inerzia delle istituzioni – si è costretti a rimboccarsi le maniche e ad attivarsi da soli. Spesso l’iniziativa è frustrata, ma almeno ci si sente vivi nel tentativo.

Le loro dichiarazioni sono importantissime. Innanzitutto perché ci svelano che le giovani generazioni sono cognitivamente attive, ma sono disinnescate da amministrazioni miopi e pigre, dalla mancanza di fondi, dalla più generale assuefazione al grigiore. Dunque, le giovani generazioni comunque tentano di fare qualcosa, arrangiandosi, tuttavia ad un certo punto è come se scalpitassero mentre una mano enorme li schiacciasse dall’alto. Si reagisce al negativo, andando via dalla Città, costretti, oppure bighellonando tra i troppi bar, alimentando un senso d’inutilità e di rassegnazione. Così si spegne una generazione, una comunità, una Città.

Ho trovato molto significativa, a tal proposito, la dichiarazione di Michela Mancuso nell’articolo di Picariello.

In definitiva, lamentarsi non è inutile. In primis, perché le lamentazioni poggiano su disagi veri e prolungati. Per non parlare sempre di Piazza Castello, vorrei solo segnalare se c’è più qualche avellinese che riflette sullo stato della via d’accesso alla Città Ospedaliera, mentre la percorre: ci siamo abituati. Eppure è uno dei più longevi esempi di errori, mal gestione, miopia, pigrizia, inettitudine.

Un esempio meno elefantiaco? I cassonetti per l’immondizia. Un tempo, li lavavano periodicamente. Ora sono lerci da epidemia, spesso azzoppati (senza una o più rotelle), per lo più senza coperchio, talvolta anche reduci da incendi. È un degrado costante, quotidiano. Ci siamo abituati e non lo notiamo più.

Tutti ranocchie nella pentola sul fuoco. Riusciremo mai a saltare fuori in tempo?

Cecini non pascua, nec rura, nec duces
Cecini non pascua, nec rura, nec duces
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Cecini non pascua, nec rura, nec duces
Tag(s) : #Avellino, #Brindisi
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